“La Uecchinera”, ispirata da una serenata popolare barese e dai tanti racconti popolareschi che hanno abitato la nostra infanzia, pur se a brandelli utilizzata in diverse composizioni spettacolari, non ha ancora trovato una realizzazione scenica completa ed autonoma. Stessa
sorte ha subito per la pubblicazione che finalmente oggi si realizza grazie al sostegno dell’Associazione Civitasda Alfredo Polito alle non poche sollecitazioni che sono venute dai tanti amici dopo la messa in scena di “Stòrie e patòrie” (Prima nazionale 9 giugno 1996 nell’ambito della Piedigrotta Barese) in cui ho ripetuto il tentativo di arricchire drammaturgicamente alcuni racconti della tradizione orale
barese dei quali Alfredo Giovine, che mi onorò della sua amicizia e dei suoi incoraggiamenti, fu cesellatore e custode.
La mia riconoscenza e il mio pensiero vanno all’amico professor Vito Carofiglio, trascinatore appassionato, artefice di numerose, straordinarie avventure teatrali e studioso insigne e orgoglioso del nostro dialetto a cui dedicò poetiche “traduzioni” Shakespeariane. Un
ringraziamento particolare rivolgo a Raffaele Nigro con cui un tempo cavalcavamo spensierati sul bianco cavallo del “Grassiere” seguiti da
”Festose Bande” paesane . . . e riuscivamo a parlare e a sognare.
Che dire poi del grande compagnone che fu Ginetto Guerricchio! Ci mancherà la sua allegria, non certo il suo ricordo. Con generosità assoluta illustrò la copertina del mio primo disco “Pugliata” e mi
onora ancora con le illustrazioni di questo libro.
Un grazie sentito a Gigi De Santis per la collaborazione attenta e
meticolosa alla scrittura dialettale barese e alla compilazione del glossario e agli amici della Fotolito 38 per aver ricreato con assoluta fedeltà i colori di Guerricchio e per la pazienza nel correggere tutti i nostri strafalcioni al computer (di cui andiamo orgogliosi).
Vito Signorile
Stòrie e Patòrie: la tradizione barese che guarda al Pentamerone e alla Gatta Cenerentola
Due quadri scenici per raccontare la cultura della tradizione barese e del suo dialetto.
L’azione è ovviamente ridotta a pochi ingressi di personaggi e se per il primo atto il referente lontano è il Decamerone o più propriamente il Pentamerone, per il secondo sono La Gatta Cenerentola e più propriamente la tradizione drammaturgica barese dell’ultimo Novecento.
Il tutto ovviamente farcito dei contenuti folclorici e vernacolari che arricchiscono i dialoghi scenici di Nic Mac, Barracano, Savelli, De Fano, Giovine e del Maurogiovanni autore comico.
Nel primo quadro il cliché del funerale fa da supporto scatenante della comicità. Perché la risata nasce dal contrasto tra la severità del luogo e la quotidianità burlona degli argomenti che trattano le sei prefiche.
Il funerale fa da cornice, proprio come, fatte le debite proporzioni, nel Decamerone questa funzione tocca alla peste fiorentina. Le donne si concederanno dei racconti fantastici tra un pianto e l’altro. La gag si costruisce su elementi popolareschi: le disavventure della scorreggia, il desiderio di prezzemolo, le sofferenze della malapasqua. Ad arricchire la comicità ci sono poi i nomi e i soprannomi, storpiati dall’uso o costruiti dalle qualità dei portatori, nomi composti che nascondono in sè il destino delle persone cui appartengono. Altro elemento scatenante la comicità è il vocabolario arcaico e desueto, un vocabolario greve, triviale, buffonesco.
Il secondo quadro è invece la messa in prova di uno spettacolo per beneficenza, attraverso la ricostruzione dell’atmosfera del Natale. Protagoniste sono ancora le donne, come nel primo quadro.
Quasi la figura femminile, la popolana del vecchio borgo barese, sia più arguta e dotata di battute fulminanti e salaci. Se maschi ci sono, hanno la funzione di dominatori della scena e risolutori, come il prete regista del secondo atto, mentre la gag risolutiva del quadro è affidata alla figura grottesca e spaventevole di “mezzoculo”.
Qui si intende creare una parodia del teatro moderno, con il dialogo interno allo spettacolo ed esterno, tra attori che improvvisamente si scoprono tali, quando appare un attore nel ruolo di un prete che ha la funzione del regista. Un gioco attorno al concetto di teatro nel teatro e finzione nella finzione.
Certo, si tratta di un testo che guarda al passato e che attraverso il dialetto e le nenie popolaresche tende a difendere una cultura in via di sparizione. Un altrove che esiste soltanto nella memoria di pochi e nella realtà di una minoranza che fa violenza a se stessa alla ricerca di una qualche identità borghese con l’illusione di allontanarsi da una condizione di povertà.
Raffaele Nigro